Il rapporto tra Martin Scorsese e Bob Dylan - Prima parte

 


Il rapporto tra Martin Scorsese e Bob Dylan – Prima parte.  

"Ora hai i tuoi diamanti e i tuoi bei vestiti. E un autista guida la tua auto. Fallo sapere a tutti, mi sta bene, ma ti prego non giocare con me, perché stai giocando con il fuoco." (The Rolling Stones, Play with Fire, 1965)

Potrebbe sembrare irrispettoso iniziare un pezzo dedicato al rapporto tra la musica di Bob Dylan e il cinema di Martin Scorsese proprio con una canzone dei Rolling Stones. La band di Mick Jagger & Co. ha sempre avuto un legame ambiguo con il cantautore americano, che nonostante la vicinanza di Ron Wood e la condivisione di palchi importanti, non ha nascosto una certa riluttanza nel commentare il lavoro dei colleghi, per certi versi considerati come rivali. Del resto Dylan è stato associato a diverse band, Beatles e Animals, prima di tutte, ma anche Byrds, Fairport Connection, Grateful Dead e Tom Petty & The Heartbreakers.

La figura di Dylan può essere accostata a quella delle migliori band che hanno calcato le scene, se possibile in ogni contesto, musicale e sonoro. Facilmente si potrà tracciare una connessione con The White Stripes, visto che proprio il leader del gruppo, Jack White non ha mai nascosto la propria ammirazione nei confronti del cantautore. Per il momento bisogna però limitarsi a quelli che sono i legami principali, i contributi e le connessioni fondamentali da tirare in ballo.

Martin Scorsese è senza dubbio uno dei più grandi maestri del cinema americano post-bellico. Rappresenta al pari di Coppola e Cimino, uno dei più influenti autori accostati alla New Hollywood. Forse non ha avuto il successo commerciale di Spielberg, con cui condivide alcuni interessi e non è diventato quel tipo di regista produttore stile George Lucas, pur avendo incarnato in alcuni frangenti, questo duplice ruolo.

A livello musicale fin dagli esordi vediamo come la sua ricerca di una colonna sonora funzionale alle sue storie verta a favore del rock, del blues e del jazz. Non ha mai nascosto simpatie per artisti come Jackson Browne, The Rolling Stones, Van Morrison, Eric Clapton e ancora Robbie Robertson & The Band. Proprio con The Band realizza uno dei lavori più importanti degli anni Settanta; capace di creare un vero marchio di fabbrica: un termine di paragone nel futuro rapporto tra cinema e musica rock.

The Last Waltz, l’ultimo valzer, è il primo tassello che mette in connessione il cinema di Scorsese e le canzoni di Bob Dylan. Nel film-documentario Scorsese filma tre brani della performance dylaniana, costituita da Forever Young, la reprise di Baby, Let Me Follow You Down e la collettiva I Shall Be Released. In realtà il mini set di Dylan oltre ai brani citati conterebbe anche Hazel, I Don’t Believe You (She Acts Like We Never Have Met) e Baby, Let Me Follow You Down. La performance integrale si può ascoltare su The Last Waltz (Box Set) pubblicato nel 2002. 

A distanza di anni scopriamo la reticenza di Dylan che fino all’ultimo momento tentò di sabotare le riprese della propria performance, per via del fatto che in quel periodo stesse lavorando al suo film Renaldo and Clara. Ed è un po’ bizzarro come a distanza di 40 anni le strade di Dylan e di Scorsese si siano nuovamente incrociate, proprio sullo stesso tragitto.

 Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story by Martin Scorsese trae ispirazione (e materiale d’archivio) proprio da Renaldo and Clara. Se non fosse per il fatto che stiamo parlando di due autori come Scorsese e Dylan, due icone nel loro rispettivo campo professionale, la cosa rappresenterebbe una clamorosa casualità, ma non è questo il caso. In mezzo, tra The Last Waltz e Rolling Thunder Revue del 2019, Scorsese utilizzerà uno dei cavalli di battaglia di Dylan (la versione live di Like a Rolling Stone con The Band) nel suo episodio di New York Stories, Life Lessons, scritto da Richard Price, sceneggiatore con un background rock 'n' roll e autore del romanzo The Wanderers, pubblicato nel 1974. Il film interpretato da un carismatico Nick Nolte, mette in scena il motivo della creazione artistica come tormento morale, tema assai caro al regista newyorkese. “Preso nel vortice di una negazione assoluta e di un’affermazione viscerale e dirompente dell’uomo come artista.” 

I modelli dichiarati sono qui il diario di una delle amanti di Dostoevskij e il film biopic Brama di vivere su Van Gogh. Una breve biografia d’artista, dunque dove l’immaginario Lionel Dobie esprime tutta la sua fisicità del fare pittorico attraverso un sensazionale utilizzo del brano dylaniano, in funzione di contrappunto sonoro alle inquadrature. Lungi dall’essere una semplice storia newyorkese, il mediometraggio acquista valore autonomo di grande portata nel complesso della filmografia scorsesiana. Con l’abilità che gli va riconosciuta, Scorsese applica valenze simboliche facilmente trasferibili da un’opera all’altra, in un fertile gioco di rimandi. La capacità e la sapienza di trattare il materiale musicale già realizzato da altri, verrà evidenziato ancora nelle sue opere successive: Goodfellas e Casinò su tutti, ma i titoli da annotare sarebbero troppi.

La musica è un aspetto non accessorio del cinema di Scorsese, men che meno lo sono alcune canzoni. Non stupisce se a un certo punto della sua carriera il regista si concentrerà su documentari dedicati al blues e al rock come Feel Like Going Home, primo capitolo della serie “The Blues” (2003) prodotta dallo stesso Scorsese in collaborazione con Clint Eastwood, Wim Wenders, Mike Figgs e Marc Levin.

Accenniamo ora al progetto No Direction Home

Reduce dal successo del biopic The Aviator (2004), pellicola dedicata alla figura di Howard Hughes, interpretata da Leonardo DiCaprio e Cate Blanchett (sì, proprio lei), Scorsese torna ancora a dirigere un documentario musicale. 

Questa volta si tratta di No Direction Home, film che si concentra sulla prima parte della carriera di Bob Dylan. Dall’arrivo a New York nel 1961, che era già presente nell’autobiografia Chronicles: Volume One, fino al suo ritiro dalle scene del 1966, racchiudendo l’ascesa al successo di Dylan prima come cantautore folk, per arrivare al passaggio della cosiddetta “svolta elettrica” avvenuta con il trittico Bringing It All Back Home- Highway 61 Revisited e Blonde on Blonde. Il titolo è naturalmente ispirato al verso di Like a Rolling Stone e nel documentario non manca il famoso episodio della contestazione al Manchester Free Trade Hall con il fan arrabbiato che gli urlerà contro l'oramai celebre “Judas!”

Tra gli intervistati, oltre allo stesso Dylan, troviamo personalità del calibro di Allen Ginsberg, Dave Van Ronk, Joan Baez, Pete Seeger, Liam Clancy, Al Kooper, John Hammond, D.A. Pennebaker e molti altri. Per completezza è giusto ricordare che il documentario utilizza molte riprese realizzate da Murray Lerner (autore di Festival! del 1967) che verranno in seguito riportate sull’antologico The Other Side of the Mirror, film consigliato per ogni appassionato e curioso, non solo di Dylan, ma soprattutto per l’importanza storica, del contesto musicale e socioculturale del periodo a cui fa riferimento.

(Continua)

Dario Greco



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