Il sodalizio tra Dylan, Harrison, Petty e Orbison - Seconda parte
Bob Dylan featuring George Harrison
Tutti
conoscono il legame tra Bob Dylan e George Harrison, che risale ai tempi dei
Beatles e all’interesse che il chitarrista inglese ha sempre dimostrato per il
materiale del collega statunitense. A livello retrospettivo oggi conosciamo le
sessioni del 1970, diventate nel frattempo un disco ufficiale, ma che
circolavano già da lungo tempo in formato bootleg. Dylan e Harrison hanno
diviso inoltre il palco innumerevoli volte, a partire dalla storica performance
The Concert for Bangladesh del 1971. Sul terzo disco in studio All Things Must
Pass del 1970 trovano spazio due brani composti da Dylan: I’d Have You Anytime,
scritta a quattro mani e If Not For You, realizzata dal cantautore americano,
la cui prima versione si può ascoltare su New Morning (1970). Su Under the Red
Sky di Dylan si può sentire la chitarra slide di Harrison che colora il suono
della title track. A concludere c’è poi l’esibizione collettiva per The 30th
Anniversary Concert Celebration, dove Dylan e Harrison, assieme a Roger
McGuinn, Neil Young, Eric Clapton e Tom Petty eseguono una vibrante My Back
Pages. Harrison nel corso della serata aveva suonato in precedenza If Not For
You e Absolutely Sweet Marie. Da annotare anche la performance all’Hotel
Waldorf-Astoria di New York City, quando il 20 gennaio 1988 Dylan venne
introdotto nella Rock and Roll Hall of Fame. Tra le tante esibizioni della
serata bisogna ricordare quella che vede George Harrison e Bob Dylan insieme
per l’esecuzione di All Along the Watchtower e di I Saw Her Standing Here dei
Beatles, tra i brani eseguiti durante la serata.
“Roy
Orbison è semplicemente “il più grande”. "Il primo vero disco che abbia
mai avuto si chiamava 'Please Please Me' ed è stato scritto dai Beatles per Roy
Orbison". “Se rallenti quella canzone, puoi sentire Roy Orbison in essa, e
questa è la storia. Questo è tutto ciò che ha scritto.” (Elvis Costello)
Il primo
capitolo del supergruppo Traveling Wilburys viene salutato come un successo di
critica e di pubblico. Contribuisce al lavoro di studio Jim Keltner, che per
stare al gioco assumerà lo pseudonimo di Buster Sidebury, mentre i cinque
protagonisti sono “i figli” di tale Charles Truscott Wilbury Sr. coi nomi di
Nelson, Otis, Lefty, Charlie e Lucky. Il 18 ottobre 1988 viene rilasciato
questo Traveling Wilburys Vol. 1 contenente dieci tracce, composte suonate e
cantate dai cinque musicisti, che si scambiano il ruolo di lead vocalist,
all’interno dell’album. Tutti gli strumenti sono suonati dai cinque Wilbury,
con l’eccezione della batteria di Jim Keltner, del sax di Jim Horn e delle
percussioni di Ray Cooper. Il singolo di maggior successo è Handle with Care, che entrerà nelle classifiche in UK,
Australia e Nuova Zelanda. Il disco viene nominato ai Grammy nella categoria
album dell’anno, mentre si aggiudica il premio per la miglior performance rock
realizzata in duo o da un gruppo vocale. Nella versione del 2007 sono state
aggiunte due tracce, Maxine e Like a Ship, che vedono rispettivamente George
Harrison e Bob Dylan come lead vocal. In generale la voce che predomina nel
lavoro è naturalmente il timbro di Roy Orbison che impreziosisce il tutto,
mentre Dylan spicca particolarmente in tre tracce: Dirty World, Congratulations
e soprattutto in Tweeter and the Monkey Man, probabilmente l’apice della
collaborazione tra il menestrello e Tom Petty, visto che molte volte è stato
detto che sono questi ultimi gli autori della canzone. Oltre al singolo
apripista Handle with Care, bisogna citare il brano Not Alone Any More, dove
ancora una volta Roy Orbison ruba la scena, grazie alle sue doti vocali. Il
sito web del supergruppo scrive: “Il gruppo è nato in questo modo: cinque
ragazzi con statura da star a pieno titolo, con George coordinatore e
responsabile unico della creazione del giusto ambiente per il progetto Wilbury
dove cinque stelle potevano godere di una collaborazione senza ego. Tutti hanno
cantato, tutti hanno scritto, tutti hanno prodotto e si sono divertiti a farlo”.
Il disco ha davvero un’atmosfera unica e magica, che la superband, orfana
proprio di Roy tenterà di rievocare con risultati altalenanti nel sequel del
1990, Traveling Wilburys Vol. 3. dove si segnala l’ospitata di Gary Moore,
chitarra solista nel brano She’s My Baby. Un bel disco sicuramente, ma che non
tocca le vette e la freschezza del primo capitolo, nonostante la presenza dei
quattro superstiti originali del progetto. La sensazione è che la voce e il
carisma di Roy Orbison, sono state centrali e hanno fatto da vero collante e da
motore di accelerazione al progetto. Del resto quando si parla di voci, Orbison
è citato come una delle più belle di sempre nel rock. Parte della tardiva
riscoperta di questo eccezionale artista la si deve all’utilizzo del brano In
Dreams nella colonna sonora del film Blue Velvet di David Lynch. Il regista
americano da sempre ossessionato dal rock and roll, stravolge il senso del
brano di Orbison, tanto che lo stesso Roy in un primo momento non autorizzò
l’utilizzo sentendosi infastidito per come il senso della canzone veniva
stravolto nell’opera lynchiana.
“Roy
Orbison andava al di là da tutti i generi, folk, country, rock and roll o
qualunque altra cosa. Mescolava tutti gli stili, compresi quelli che non erano
stati ancora inventati. In un verso cantava veramente da cattivone, in quello
dopo se ne usciva con un falsetto alla Frankie Valli. Con Roy non si sapeva mai
se stavi ascoltando del mariachi o un’opera lirica. Teneva sulle spine; la sua
era un’offerta di grasso e di sangue, sembrava che cantasse dalla cima del
monte Olimpo ed era meglio starlo a sentire perché diceva sul serio. Cantava
con una estensione di tre o quattro ottave, roba da farti spingere la macchina
giù per la scarpata e non pensarci più. Cantava come un professionista del
crimine. Di solito cominciava su un registro basso, appena udibile. Per un po’
ci rimaneva, poi dava spazio ai suoi stupefacenti istrionismi. La sua voce
avrebbe dato la scossa a un cadavere. Le sue erano canzoni dentro le canzoni,
era terribilmente serio e non c’era niente di adolescenziale in lui. Alla radio
all’epoca non c’era niente come lui.” (Bob Dylan, Chronicles Volume One)
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