A proposito di Duquesne Whistle (2012)

 


Che cos'è il genio? È fantasia, intuizione, colpo d'occhio e velocità d'esecuzione.

Aggiungiamo pure che il genio è la capacità di descrivere e di metterti in contatto con una realtà parallela che probabilmente non esiste. Questo brano ad esempio riesce a trasportarci letteralmente in una dimensione dove il tempo e lo spazio si dilatano all'infinito e ci ritroviamo a bordo di un vecchio treno, probabilmente diretti verso il Nowhere.

"Tu dici di me che sono un baro, un magnaccia di infimo livello, beh, mi spiace deluderti, ma non sono né l'una né l'altra cosa."

Sull'ossessione del giovane e anziano Dylan per i treni, le locomotive e le stazioni ferroviarie si potrebbe disquisire per ore. Anche la "Duquesne" del titolo è proprio una locomotiva. Siamo probabilmente diretti a Pittsburgh via New York, o viceversa, ma anche stavolta non è chiaro capire come e dove ci troviamo "realmente" perché l'autore mischia le carte come un abile giocatore d'azzardo, facendo non a caso un riferimento al gioco, nel testo. Può darsi che il fischio della "Duquesne" si riferisca alla sirena della fabbrica, in questo particolare caso si parlerebbe di una grande acciaieria.

A livello inconscio abbiamo l'impressione di viaggiare su un treno, un treno che ha fretta di arrivare a destinazione, forse.

"Vecchio furfante, io so benissimo dove stai andando" dice Dylan a un certo punto e ancora "Appena sarà giorno, ti ci condurrò di persona" con tanto di citazione stavolta omerica. Tanto per non farci mancare niente c'è anche la vecchia quercia dove ci si arrampicava da bambini, altro rimando a un certo tipo di canzoni da Elvis Presley a Johnny Darrell dove il narratore scendeva dal treno nella città dove era nato per ritrovare la vecchia quercia, simbolo di proustiana memoria dell'innocenza perduta e forse mai del tutto ritrovata.

Gridi a chiunque di liberarti dai criminali e dagli psicopatici, da questo serraglio di schiappe e di codardi. Quello che stai cercando è l'emancipazione, la possibilità di trovare la chiave per liberarti da queste catene che ti sei autoimposto.

"Vorresti vedere un volto amico, un viso bello e affascinante, qualcuno capace di volare alto senza sgarrare, che abbia un'etica e fa la sua figura." Insomma qualcuno che sta in un posto decente, ospitale, anche una bettola, un locale un po' equivoco con una cucina casareccia. Nessuno ha bisogno di andare sempre e comunque a rotta di collo e la rapidità adesso per te non ha particolare importanza, perché tutti dovranno misurare i propri passi."

E il Libro dice: "Non è degli agili la corsa né dei forti la guerra, perché il tempo e il caso raggiungono ogni uomo."

C'è una mano amica che corre in tuo soccorso, ti aiuta ed è comprensiva, ma tu sei risucchiato in un limbo, gridando e scalciando nel tentativo di venir fuori da questo Giardino del Male. Perché ora tutto ciò che desideri intensamente non è trascorrere il resto della tua sognando a occhi aperti, tu vuoi oltrepassare le terre di confine e hai trascorso troppo tempo a rimuginarci sopra.

Sei rimasto sospeso a mezz'aria e adesso la scena è pronta e tu stai per andare in ogni direzione possibile. Il "No Direction Home" torna ancora una volta protagonista, ma stavolta le forze e le energie della gioventù ti vengono meno. Hai dalla tua l'esperienza e la volontà di cambiare la tua vita in un istante, ma probabilmente è solo vana illusione. Siamo forse dalle parti di Jack London e di The Star Rover, il romanzo del 1915. 

Vorresti volare sopra un carro, attraversando le colonne di luce, hai fede e sei intrepido quel tanto che basta, vuoi solo essere scagliato in un regno lontano dove sarai redento, e partirai insieme a chiunque ti scorterà fuori da questa selva oscura di cazzate, da tutto quello che marcisce o che sta andando a male.

C'è un veloce, fulmineo treno che si sta avvicinando. Treno dei ricordi, locomotiva che giunge da un passato remoto, indecifrato.

Ho sempre apprezzato in Dylan questa capacità di raccontare con precisione qualcosa di impalpabile, di visivamente audace, dove il pathos, l’empatia ci arriva con un semplice schiocco di dita. Basta la parola giusta, il suo personale Mumbo Jumbo, l’abracadabra che ci conduce in un luogo magico e terribile. La capacità di affabulazione, come un presentatore di uno spettacolo itinerante e circense, che vive nella sua e nella nostra immaginazione di spettatori paganti. Ci riporta con la memoria a canzoni come “Take Me From This Garden of Evil” di Jimmy Wages, registrata alla Sun Records nel 1956. Eppure noi non c’eravamo e non ne potevamo conservare quindi alcuna memoria. Si tratta semplicemente di un trucco, di un artificio letterario, come direbbe Gerard Genette.

Scrive Stephen Nachmanovitch in FREE PLAY:

"La fedeltà al momento e alla circostanza relativa al presente implica una resa continua. Forse ci stiamo arrendendo a qualcosa di delizioso, ma dobbiamo ancora rinunciare alle nostre aspettative e a un certo grado di controllo - rinunciare a essere avvolti in modo sicuro nella nostra storia. Dobbiamo ancora impegnarci nell'importante pratica della pianificazione e della programmazione, non per bloccare rigidamente il futuro, ma per sintonizzare al meglio il sé. Nella pianificazione concentriamo l'attenzione sul campo in cui stiamo per entrare, quindi rilasciamo il piano e scopriamo la realtà del flusso del tempo. Così attingiamo alla sincronicità vivente."

Tutto questo (e molto altro) è Tempest di Bob Dylan, quel capolavoro maturo che l'autore ci consegna nel settembre 2012. E non è certo un caso se queste canzoni saranno le ultime autografe fino alla pubblicazione dell'ultima raccolta del 2020, Rough and Rowdy Ways, un Dylan ruvido e rozzo, nell'epoca dei "social" e dei “Millenials".


Un altro, ennesimo colpaccio per quella vecchia volpe da pellicceria chiamata Dylan.

Dario Greco

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