Bob Dylan e la sua dichiarazione d’amore crepuscolare
Pubblicata nel 2020 all’interno dell’album Rough and Rowdy Ways, “I’ve Made Up My Mind to Give Myself to You” rappresenta uno dei vertici lirici e melodici del Dylan contemporaneo. È una ballata che si colloca nel cuore emotivo del disco, rivelando un Dylan meditativo, fragile, ma capace di una limpidezza sentimentale rarissima nella sua produzione recente. Il brano, accolto immediatamente come uno dei momenti più intensi dell’album, unisce una poesia d’amore dichiarativa a una riflessione quasi metafisica sul tempo, sul viaggio e sulla solitudine, facendo emergere un livello di profondità che trascende la semplice canzone romantica.
Un inno alla resa amorosa che diventa meditazione sull’esistenza
Il testo si presenta come una dichiarazione d’amore totale e irrevocabile, ma in realtà si muove su una soglia più complessa, dove l’abbandono sentimentale coincide con la resa a qualcosa di più grande: il destino, la vita stessa, forse una forma di trascendenza. Dylan lavora volutamente su un registro ambiguo: il “tu” non è caratterizzato e può essere letto come figura amorosa, come entità spirituale o come simbolo della ricerca di un senso ultimo.
La prima strofa stabilisce già il tono contemplativo: la terrazza, le stelle, le “sad guitars” evocano uno spazio sospeso dove il soggetto si lascia attraversare dal mondo. L’immagine è quasi cinematografica e richiama atmosfere care alla ballata romantica americana, ma filtrate da una consapevolezza crepuscolare.
Il ritornello dichiarato – “I've made up my mind to give myself to you” – non è solo promessa affettiva: è un gesto di volontaria rinuncia al controllo, il desiderio di appartenere a qualcosa che sciolga la solitudine e l’erranza. E in un album attraversato da riflessioni sulla morte, sulla memoria e sull’identità artistica, questa frase acquisisce una risonanza quasi testamentaria.
Il tema del viaggio come metafora del tempo
Dalla seconda strofa in poi emerge il motivo geografico, ricorrente nella poetica di Dylan: Salt Lake City, Birmingham, East L.A., San Antone. È il paesaggio mobile dell’America profonda, luogo fisico ma anche mentale, percorso da un narratore che appare stanco, consapevole di avere attraversato molte vite senza aver mai trovato una vera compagna di viaggio. L’elenco dei luoghi è anche un modo per allargare lo spazio del sentimento: dire “ti appartengo” equivale a dire “ho finito di vagare”.
Nella terza strofa la metafora del “shooting star” suggerisce un’identità che non è più capace di trovare punti di riferimento terreni; è una confessione di precarietà esistenziale e al tempo stesso di inevitabilità (“No one ever told me, it’s just something I knew”). Qui emerge la chiosa tipica di Dylan: un sapere innato, un’intuizione più profonda della logica.
I versi “If I had the wings of a snow-white dove / I'd preach the gospel, the gospel of love” introducono un registro spirituale esplicito. L’immagine della colomba è biblica, ma anche parte dell’immaginario gospel e folk americano. Dylan riprende la tradizione religiosa per trasformarla in un atto laico: il “gospel of love” non è quello di una fede istituzionale, ma quello di un sentimento che si offre come risposta alle ferite del mondo.
La semplicità della dichiarazione (“A love so real, a love so true”) non è banalità, bensì un ritorno all’essenza, quasi come se il narratore, al termine del suo viaggio, avesse bisogno di parole elementari per dire le cose più complesse.
Le strofe successive approfondiscono la dimensione autobiografica: il lungo viaggio nella disperazione, l’assenza di altri viaggiatori, la consapevolezza della perdita (“Lot of people gone, lot of people I knew”). Qui il canto si avvicina alla meditazione sul tempo e sulla morte, temi centrali di Rough and Rowdy Ways. Eppure tutto culmina in un movimento ascendente: il cuore-riverbero, la lentezza del capire (“Just takes me a while to realize things”), il desiderio di pace (“I hope that the gods go easy with me”).
Il finale – “I knew you'd say yes, I'm saying it too” – non è un semplice lieto fine. È un accordo reciproco che suona come un voto. In questa reciprocità ritrovata, il soggetto si riconcilia finalmente con il mondo, o forse con sé stesso.
Una ballata sospesa tra classicismo e malinconia
Musicalmente, I’ve Made Up My Mind to Give Myself to You è una delle composizioni più limpide dell’album, una ballata in 3/4 che richiama la tradizione del crooning anni Cinquanta e Sessanta, filtrata attraverso la sensibilità moderna di Dylan. L’andamento è un lento quasi da valzer, dove il moto oscillante suggerisce un respiro intimo, domestico, come un avvicinarsi all’altro.
L’accompagnamento orchestrale, dolce ma misurato, crea un’atmosfera quasi da canzone d’epoca, mentre la voce di Dylan – fragile, scavata eppure sorprendentemente melodica – guida l’ascoltatore con un tono di confessione. La presenza delle tastiere, dei leggeri archi e delle chitarre pulite contribuisce a creare un clima di sospensione emotiva.
La struttura armonica e la sua funzione narrativa
L’armonia è semplice, costruita su progressioni morbide, circolari, che evitano bruschi cambi. Questo serve a sottolineare un senso di inevitabilità: il narratore “ha preso la sua decisione” e la musica lo accompagna in questo movimento verso la resa. Non ci sono climax drammatici, ma una continuità quasi meditativa che punta tutto sulla parola, come nella tradizione dylaniana più recente.
La voce come strumento di verità
La performance vocale è centrale: Dylan non tenta la bellezza formale, ma costruisce un’emissione calda, rotta, profondamente umana. Ogni verso è scandito con una lentezza che sembra pesare il significato delle parole. Nei ritornelli la voce assume una pienezza quasi da preghiera, come se il gesto d’amore fosse insieme terreno e sacro.
Una canzone che dialoga con la storia della musica americana
La ballata richiama influenze del pop standard, del folk e perfino del gospel. Ma soprattutto dialoga con il passato di Dylan: con le dichiarazioni d’amore appena sussurrate degli anni Sessanta, con i canti religiosi del periodo cristiano e con la poetica malinconica degli album più tardi. È una sintesi, una canzone che suona come se venisse da un’altra epoca e allo stesso tempo appartenesse pienamente al presente.
I’ve Made Up My Mind to Give Myself to You è una delle canzoni più tenere, meditative e luminose di Bob Dylan negli ultimi decenni. Il testo mette in scena una resa amorosa che coincide con una forma di salvezza interiore, mentre la musica la sostiene con delicatezza, eleganza e un senso di malinconica gratitudine. È un brano che vive di semplicità apparente ma che custodisce un universo di sfumature emotive e simboliche, entrando tra i momenti più alti di Rough and Rowdy Ways.

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